Intervista ad Hanna M. Civico su Silenzio pieno. In ara cordis

Transeuropa Edizioni Recensione Intervista ad Hanna M. Civico su Silenzio pieno. In ara cordis

  1. Com’è nato Silenzio pieno. In ara cordis? Qual è stato il momento o la spinta iniziale che l’ha avviata?

Durante il periodo di lutto per la morte di mio padre, nei successivi nove mesi, ho frequentato una Scuola di alta formazione per Assistente Spirituale in Cure Palliative a Prato presso la sede dei Ricostruttori nella preghiera. La morte di mio padre mi ha messo di fronte alla necessità inderogabile di comprendere il senso dell’accompagnamento e della vita al di là della vita. La morte di mio padre è stata connotata dalla situazione in cui era fisicamente impossibile stare vicini, dato che tutti noi membri della famiglia, quelli più vicini a mio padre, eravamo malati e in contumacia in città diverse. Ed è in questa distanza che si sono creati ponti e legami soprendenti. La frequenza della Scuola mi ha dato strumenti formativi e di analisi, e mi ha aiutato nell’elaborazione del lutto in una dimensione collettiva con il sostegno dell’ascolto dei monaci e monache presenti alla Villa al Palco. Al termine della scuola dovevamo fare una tesina e da lì ho iniziato a scrivere della mia esperienza mettendola in relazione agli strumenti teorici, funzionali, poetici e spirituali che stavo apprendendo. Ho anche ritrovato, scrivendo e ricordando, tutti gli agganci antropologici ed etnografici che stavo accumulando già da anni sul tema del compianto e dei riti funebri di varie culture e così era il momento giusto per metterli in sinergia. E’ stato un percorso di scrittura di quasi quattro anni.

  1. In cosa consiste per lei l’esperienza della pandemia intesa come “emergenza dello spirito”? Come ha collegato questa esperienza al lutto personale nel libro?

Il contesto pandemico ha messo in crisi profonda la capacità umana di autoregolarsi sia a livello personale che collettivo. La condizione di reclusione e di impossibilità per individui e gruppi di potersi incontrare e confrontarsi, sostenersi materialmente e moralmente; la recrudescenza e violenza con cui, a livello di pubblica amministrazione e media, si è passati dalla narrazione alle norme autoritarie. Ogni cosa ha condizionato comportamento e mente delle persone facendole sprofondare in depressione, sottomissione, paura e brutalità, disorientamento. Povertà emotiva e spirituale. Essere testimone di questa caduta è stato per me come un terremoto interiore. Salvarsi da quel terremoto ha voluto dire proteggere ciò che di più necessario e prezioso ci vuole esser tolto e che ha a che fare con la nostra cultura di accudimento e sostegno reciproco, di sentirsi unità, uniti come comunità umana in connessione con il tutto. E soprattuto senza giudizio dell’altro. Sembrano cose banali e facilmente raggiungibili, ma il percorso umano è: trovare la forza interiore necessaria per amare incondizionatamente. La pandemia ci ha diviso e questo ha accelerato le cause, già presenti prima, di patologie e disfunzioni psico-fisiche-spirituali e sociali. L’accudimento a distanza di mio padre ha determinato un risveglio fulmineo delle mie capacità umane di legame e gestione nella sfera delle cose invisibili. La tensione e il vissuto dell’accompagnamento nella morte, nella distanza, mi ha reso chiaro che l’unità fra esseri viventi era stata messa sotto attacco. Si volevano spezzare i ponti, i legami ed in parte questa operazione è riuscita. Dunque l’emergenza sanitaria per me è sempre rimasta sullo sfondo, in primo piano osservavo e subivo l’abbrutimento delle relazioni sia dirette che indirette. L’emergenza esistenziale che stavo vivendo ha fatto da ponte per la messa alla prova delle risorse interiori sopite, la cui funzionalità è stata possibile anche grazie al sostegno concreto del monaco padre Guidlberto Bormolini e del movimento dei Ricostruttori che ho potuto incontrare in questa contingenza di vita. Quindi ho voluto tentare di annodare il filo che lega le culture nell’affrontare il tema del lutto e dell’oltremondo, i riti, le credenze, mettendone in risalto alcune e ricercando sia nel passato remoto, che nel contesto attuale, attraverso il mito, l’archeologia e lo sguardo antropologico ed etnografico. In un certo senso il mio libro apre ad una possibilità di ricerca trasversale e integrata, non la esaurisce, è un suggerimento di come il piano personale e quello collettivo, quello scientifico e sentimentale possano camminare insieme.

  1. In che modo coniuga la ricerca etnomusicologica con la riflessione mistica? Può raccontare un episodio significativo in cui questi ambiti si sono incontrati?

In modo molto concreto e diretto, nelle mie ricerche musicali indipendenti sul campo, ho preso parte come testimone a eventi della Settimana Santa e altre festività religiose, dove ho assistito, durante le processioni e funzioni rituali in chiese o all’aperto, all’estasi che consegue da una celebrazione prolungata che ha come tema la storia dei Santi o della Passione di Cristo e Maria. Momenti in cui i protagonisti principali della celebrazione, persone del paese, entrano in una dimensione molto intima con il qui ed ora, acquisendo una qualità di presenza trasparente, capace di essere qui ed altrove nello stesso tempo e di portarci con loro. In genere questo si verifica in presenza di modalità tradizionali molto antiche del canto, della danza, del camminare ore ed ore sotto il peso di statue significative per coloro che hanno fede. Ripetendo gesti tradizionali, che si tramandano oralmente da tanto tempo. Questa pietà popolare, come forma di partecipazione, è molto vicina, direi quasi speculare, alle narrazioni dei martiri, dei santi e delle sante del passato, nella poesia dei mistici sufi trasmesse dal racconto delle loro visioni e ascesi. La cosa interessante della pietà popolare è che si è davanti ad un vissuto mistico collettivo, in cui la comunità di una paese prepara il contesto rituale e lo agisce. La commozione è profonda, autentica ed è condivisa. E’ uno stato speciale in cui si riconferma l’appartenenza anche ad una dimensione oltre che umana e questo alleggerisce il peso delle cose materiali. E’ uno stato in cui possono avvenire conversioni, guarigioni e si può sentire il bisogno persino di perdonare qualcuno per qualcosa che non ha mai fatto.

  1. Utilizza il termine “acustemologia” (Steven Feld). Come descriverebbe questo approccio pratico nella sua vita artistica quotidiana?

Nel mio percorso di vita, ancora prima che il canto e la ricerca vocale diventasse un lavoro ed una visione artistica, l’ascolto è stato sempre orientato verso gli accadimenti ambientali: le voci, la musica, i silenzi. In modo immediato, da bambina, ho sentito che avrei cantato. L’orientamento al suono e alle risonanze acustiche, quindi verso lo spazio, è determinato, per me, dalla consapevolezza di una chiamata, dal vivere l’esperienza sonora in cui gli agenti ambientali e spirituali chiamano da fuori la mia attenzione. In qualche modo mi rifletto in questo. Ed è anche vero, proprio per la nostra funzione fisologica intermodale, che tutti/e noi impariamo la nostra voce non solo dagli umani, ma anche dall’ambiente. Il nostro sistema di fonazione è influenzato da ciò che udiamo, esattamente come il sole dà colore alla nostre pelle. La nostra voce ancor prima di esprimere bisogni e pensiero è uno strumento di esplorazione e risposte emotive, di creazione per analogie con la sfera del suono e questo coinvolge la corporeità. Il fare senso del corpo attraverso il comportamento e l’affermazione di una estetica artistica dove ascolto, risonanza e silenzi diventano a volte preponderanti sull’evento vocale o di canto e nel migliore dei casi creano un continuum.

  1. Parla di “ascolto come pratica radicale”. Cosa significa, per lei, esercitare questa pratica nel canto e nella vita?

Trentacinque anni fa non avrei potuto utilizzare questa espressione di “ascolto come pratica radicale” il che vuol dire che la radicalità di un certo comportamento ha a che fare con il tempo vissuto (kairòs) che si accorda, in questo caso, alla pratica e all’esperienza, che sono poi la falda freatica del lavoro artistico. Nel lavoro performativo l’ascolto si può esercitare, non è un talento, è qualcosa che tutti possono esercitare, ma quando tu lo inizi a vedere come principio attivo nella tua ricerca allora ti metti al lavoro, e vedendone i frutti, lo coltivi per tutta la vita. Allora le tue capacità percettive si estendono, si associano e irradiano per tutto il corpo ed oltre, crescendo in te man mano che gli anni passano. Il tuo corpo diventa una rete di intersezioni a più livelli energetici, così come le cellule neuronali si accrescono attraverso le sinapsi creando reti neuronali complesse, così il sistema viscerale/vegetativo viene influenzato ed esteso nell’allenamento psico-corporeo della percezione. In un certo senso io intendo la radicalità come qualcosa di concreto e metafora della estesa rete di collegamenti tra radici e funghi. Le micorrize: un sistema mutualistico tra piante e funghi. Si può vedere come l’ascolto possa diventare un sistema di orientamento tra me-essere umano e ambiente. Per me, nella mia vita, l’ascolto radicale è influenzato dagli agenti ambientali e dal campo acustico e non solo dal campo di relazioni umane. Quanto al canto, mi riferisco precisamente al contesto musicale della tradizione orale-aurale della cultura contadina antica. Un ambito musicale che si è formato e radicato a stretto contatto con l’ambiente e ne porta le tracce nella poesia, negli intervalli musicali, nei glissati e trilli, e nella necessità di una matrice timbrica. Inoltre il canto doveva essere funzionale, doveva servire qualcosa, questo aspetto della funzionalità è ricercata anche nella performance teatrale o di danza e musica contemporanei: il gesto, il canto devono essere efficaci altrimenti sono cose morte. Di conseguenza sono debitrice alla cultura del canto contadino poiché è stato l’altro filo della matassa su cui si è fondata la pratica dell’ascolto. Ora, ormai, di conseguenza, cantare è per me aprire un campo d’ascolto complesso dove tutti possono entrare.

  1. Nei progetti “Cantare nel paesaggio” o “Cantare nei luoghi è fare radici” il luogo sembra parte integrante. Cosa succede quando si canta in spazi non convenzionali?

In questi progetti confluiscono due mondi apparentemente lontani: la tradizione orale del mondo contadino del passato e la ricerca contemporanea performativa sulla presenza, sul suono e l’acustica dei luoghi. Soundstudies, performancestudies. Chi è del settore (performer, cantanti, musicisti, danzatoi) ha in genere un atteggiamento di ricerca, molto vicino all’approccio scientifico etnografico nella messa appunto delle condizioni in cui agisce: osservando, raccogliendo, componendo. D’altro lato nel settore artistico contemporaneo di mio riferimento, l’esplorazione è diretta, con il proprio corpo, l’osservante non è esterno, vengono coinvolte funzioni psico-corporee e il corpo si comporta come un dispositivo ricettivo/attivo. In cantare nei luoghi è fare radici si esercita la percezione, la raccolta e la composizione legate da esercizi e guidati dalla ricerca, nella direzione che dicevo rispondendo alla precedente domanda. Cioè questa pratica radicale dell’ascolto, che disegna e crea continuamente la tua rete di collegamenti interni, ha il suo analogo all’esterno. Perchè la ricerca abbia anche il suo fondamento scientifico si devono creare le condizioni di autosostegno, quindi la scelta dei luoghi è fondamentale e devono avere caratteristiche che si estendono dalla capacità organizzativa all’accesso a fondi economici, alla scelta di ambienti rurali adeguati, con una comunità locale non troppo urbanizzata e soprattutto con la qualità di accoglienza umana che riconosce e rispetta gli obiettivi del lavoro, che di solito sono residenze artistiche. Tornando all’acustica dei luoghi questo ci riconduce alla radice dell’ascolto, ed è nella relazione tra percezione e ambiente che si trovano le coordinate per canalizzare e contenere tutto ciò che di sonoro accade. Ad un certo punto accade che puoi riconoscere e seguire la linea della tua rete di eventi acustici che definiscono la rete di connessioni sonore tipiche, per te, di quel luogo. In sintesi di ogni luogo dove abbiamo la fortuna di stare per un tempo di almento 5 giorni consecutivi, memorizziamo una mappa sonoro-sentimentale che ci accompagna per tutta la vita, per questo cantare nei luoghi è fare radici. Ed è amare il luogo, sentirsi corrisposte e non solo dalla comunità umana. Il nostro lavoro di ricerca artistica diventa un sistema di interrelazioni complesse fra umani ed agenti ambientali, tra storie presenti e mitiche, tra alberi, asini, artisti e testimoni.

Qui alcuni esempi di residenze artistiche complesse con cui collaboro:

Kala teatro https://kalateatro.it/lavori/home-benecija/

Ex Convento https://www.exconvento.it/

Centro Teatrale di Ricerca Venezia https://www.ctrteatro.it/

  1. Tra le sue collaborazioni – ad esempio con Delia Dattilo o Amedeo Fera – quale ha influito maggiormente sul suo percorso e perché?

Con Delia Dattilo e Amedeo Fera condividiamo occasioni di scambio e di collaborazione differenti. Con Amedeo Fera, ci siamo confrontati e scambiati materiali musicali, abbiamo suonato insieme e condiviso la realizzazione di alcuni progetti, tra cui la produzione di un concerto spettacolo su Pasolini, la ricerca sui canti bizantini italo-greci, direi che è un percorso in divenire. Delia Dattilo è stata la prima etnomusicologa interessata al mio lavoro non solo come ricercatrice ed osservatrice, ma prendendo parte direttamente come testimone o allieva al mio lavoro. Abbiamo partecipato insieme a convegni internazionali di etnomusicologia, il primo è stato “From desperation to hope: the meanings and effect of group singing” convegno internazionale sul folklore a Tartu Estonia nel 2022.

Dattilo ha riferito in vari luoghi istituzionali del mio lavoro, una sua ricerca puntuale compare nella rivista internazionale di musicologia e beni culturali Filomusica dell’Università di Pavia, con questo titolo “The knowledge of the body. Experiencing the space through creative listening, multipart singing and collective movements” consultabile qui http://riviste.paviauniversitypress.it/index.php/phi/article/view/2326

Nel 2025 è uscita la collettanea di saggi curata da Nina baratti e Giovanni Cestino, dove un saggio è di Delia Dattilo e presenta una delle sue escursioni nel mio lavoro artistico, il volume è consultabile con il titolo Suono e luogo, Mimesis editore.

A fine settembre 2025 presentiamo la relazione “L’ascolto interiore, i suoni inuditi e le voci dell’anima” al forum internazionale per il Paesaggio sonoro che quest’anno si svolge a Catania FKL, consultabile qui https://www.paesaggiosonoro.it/ways_of_listening/program.html

Anche la nostra collaborazione e amicizia è in divenire e ricca di buone promesse!

  1. Essendo cofondatrice della Casa delle Donne di Terni e direttrice di “Voci insieme”, come intreccia la cura vocale e la pratica artistica con l’impegno sociale?

Questa esperienza con Casa delle Donne di Terni e coro Voci insieme è ormai conclusa. Attualmente c’è una comunità temporanea e diffusa di allieve e allievi sparsi enlla penisola italiana con cui ci riuniamo sotto l’appellativo di “Abitare il canto”. In pratica cerchiamo luoghi e architetture speciali per mettere alla prova il nostro repertorio nella forma concerto dall’alba al tramonto. Cantando per circa 12 ore consecutive alternandoci, con l’intento di ri-funzionalizzare la relazione tra il canto della tradizione orale del vecchio mondo contadino italiano e i luoghi e le comunità locali. Invitiamo le persone a sostare e immergersi nella contemplazione della risonanza. Cantando per così tanto tempo ri-troviamo un senso altro del cantare e delllo stare insieme, una condizione oltre la soglia della performance. Questi appuntamenti sono un’opportunità per noi di comprensione e creazione di nuovi contesti dove coltivare la dimensione umana. Una edizione di Abitare il canto può essere consultata qui https://www.youtube.com/watch?v=ncdTf4o3WpU&ab_channel=AnnaMariaCivico

  1. Ha esperienza nell’improvvisazione con artisti internazionali (Seijiro Murayama, Thierry Madiot…). Cosa porta l’improvvisazione al suo lavoro di ricerca e performance?

L’imporvvisazione è la parte più creativa della creazione artistica, quella dove maggiormente si esplorano le forme e le formule che sono alla base di scelte estetiche, della propria poetica. L’improvvisazione sia da solista che con colleghi mette ancora alla prova l’ascolto in una dimensione dove lo spettatore è cocreatore dell’ambiente condiviso. Mettendo alla prova l’attenzione degli artisti e degli spettatori. E’ una opportunità di grande libertà data dai limiti definiti dall’atmosfera melodico-ritmico che si decide di esplorare. Ed è sicuramente una porta per l’attraversamento di membrane acustiche ed interiori che sono argomenti di cui tratto anche nel mio libro.

  1. Dopo Silenzio pieno, quali direzioni immagina per future pubblicazioni o progetti? C’è un tema mai esplorato che vorrebbe indagare?

Silenzio pieno potrebbe avere come seguito un lavoro incentrato totalmente sull’ascolto, il suono e la voce in un quadro poetico e teorico, qualcosa che possa mettere insieme le riflessioni e le meditazioni che genera il mio lavoro artistico. Sono le persone che mi seguono a chiedermelo. Rtengo che l’esplorazione del nuovo sia possibile solo dando continuità al sentiero che si calpesta abitualmente e vedere dove ti porta.

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