“Vite attese”, il romanzo di Silvia Rivolta che indaga il legame tra genitori e figli
Articolo di Jessica Muller Castagliuolo, Repubblica 12.06.24
“Non devi credere a chi dice che il tempo attenua i dolori”. Un contagocce. Due. Cinque. Ventiquattro. Le quantità battono il tempo, distillano il dolore in piccoli sorsi. Cicli biologi. Parametri vitali. Attaccati al filo della speranza. Speranza per una vita che ancora non c’è, ma che è presente, dialogante, nella mente. È il ritmo dell’attesa. Un ritmo che – ogni volta – precipita nel vuoto, “come le emozioni, che quando si impongono inaspettate e violente, ti tirano giù”.
Edito da Transeuropa, Vite attese di Silvia Rivolta, scrittrice e psicoterapeuta, è un romanzo che vibra, “fuori e dentro”, alla ricerca della parola più elementare, più ancestrale. “Mamma” è parola desiderata per Claudia, la protagonista, che nella sua dolorosa ricerca della maternità ritrova il suo essere stata figlia.
Prima pagina. Tutto si può contare.
“I numeri per Claudia sono un modo di riempire l’angoscia. I suoi vuoti non sono sostenibili altrimenti, conta tutto perché è il suo modo di controllare la realtà”.
Genitori e figli. Tutte le storie che si intrecciano con quella di Claudia si reggono su questo rapporto.
“Come le storie di tutti noi. Tramite il desiderio di essere madre, la protagonista entra in contatto con il suo essere stata figlia. Capisce che la maternità riguarda anche la figlia che è stata”.
L’albero e l’edera. “Quello che lei non ha voluto fare me lo sta imponendo. Lei si salva, ma io muoio”.
“Se l’albero è debole e l’edera prende il sopravvento, rischia di morire. Ma è vero anche il contrario. Bisogna curarsi di entrambi”.
Ecco perché serve un terzo.
“Il giardiniere. Troppa vicinanza non permette di distinguere. La funzione del terzo, come quella del terapeuta, è quella di restituire a ciascuno il proprio passato”.
Anche nella scrittura: l’io della protagonista cede spesso il posto alla terza persona.
“Perché è la storia di Claudia, ma vorrei che fosse una storia nella quale si possano rispecchiare tutti”.
“Ho fortemente voluto che le porte della clinica si aprissero per coinvolgere chi pensa di non c’entrare con ciò che fa stare male, come se il dolore mentale fosse solo di chi ce l’ha. Senza mai pensare che chi ne soffre, lo fa anche per gli altri. Inconsapevolmente, porta il peso per tutti”. Quanto c’è del tuo lavoro?
“Ho scritto questo romanzo perché volevo sensibilizzare su problematiche quotidiane. Tante donne scelgono di diventare madri e, per molti motivi, non ci riescono. Vorrei che tramite quello che ho scritto riuscissero a guardare le cose anche da un punto di vista diverso, avere delle chiavi di lettura rispetto alle difficoltà che vivono senza forse esserne consapevoli”.
Il passato con il quale non si fa pace. “Per il peso di una storia che ci precede si può scegliere di morire, in primavera”. Le relazioni familiari sono trama e trauma.
“Il passato dei nostri genitori ci condiziona inevitabilmente, anche se sono passaggi inconsci. La storia drammatica della famiglia di Claudia la riguarda direttamente, ma nel caso della sua paziente, Roberta, lei si è trovato addosso il passato della madre senza avercelo direttamente in mente”.
Roberta, uno specchio.
“Roberta è fragile, indebolita. Non ha gli strumenti di Claudia per affrontare il presente…”.
“Finalmente, sentivo che potevo accogliere l’altro senza provare colpa, e che fare spazio non significava uccidere”. Come si fa spazio?
“Alcune cose si cristallizzano e si ripetono. Nel caso di Claudia, capisce che fare spazio nelle relazioni non significa necessariamente far fuori l’altro. Se capiamo da dove arriviamo e facciamo chiarezza con il passato che ci tiene fermi, possiamo far entrare la vita”.
La scrittura è riparazione?
“È generare”.
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