Transeuropa, 2025 – Un saggio quasi romanzato, che oscilla tra teoria e prassi (più prassi che teoria) e ottima scrittura, su uno scrittore fra i più eversivi e significativi del Novecento letterario italiano, l’autore dell’indimenticabile “Camere separate”.
La copertina della prima edizione di Un weekend post moderno (Bompiani, 1991) è bellissima. Quanto di più pop si possa (ri)pensare. Ciò che conta è non considerarla rivelativa dello spirito di Pier Vittorio Tondelli. Un weekend post moderno riferisce piuttosto dello sguardo di Tondelli: uno sguardo sensibile e al contempo vigile, pungente, ironico quasi al punto da non lasciarlo vedere. Uno sguardo entomologico sulla società degli anni Ottanta, in transito funereo – dal rivoluzionarismo alla deriva sociale – sotto patina finto soap. Tramandato alla storia come scrittore postmodernista (che cosa orribili le etichette), Vittorio Tondelli è stato, prima ancora, cantore dello spaesamento ideologico che segna il passaggio dai Settanta agli Ottanta italiani: dalla piazza ai disco-bar, dai cantautori al punk, da Bologna a una Bologna diversa, da Rimini a Rimini degli edonisti in crisi, dall’amore libero all’AIDS, dagli zingari felici all’eroina, dall’impegno politico all’impegno mondano. Per quel poco che ha potuto, Tondelli è stato assetato di vita, ma soltanto un’occhiata superficiale può rivelarlo connivente al nuovo mondo sociale inaugurato negli anni Ottanta. Dalla rabbia giovane e il sesso in fin dei conti mortifero di Altri libertini (1980) al sarcasmo militaresco di Pao Pao (1982), l’autentico sentire tondelliano credo si rintracci in ultimo. Cioè tra le pagine dolenti di Camere separate (1989), dramma sentimentale in tre movimenti, dove eros e thanatos risultano ancora una volta e più che mai coincidere.
Qualora ne fosse l’estensore, degli anni Ottanta Tondelli ne è stato anche il fustigatore. La voce denunciante senza protervia. Una nemesi pasoliniana. Meno intrisa di ardore politico ma non per questo ignava. Profeta dell’apocalisse Pier Paolo Pasolini, acuto ritrattiste della fine Vittorio Tondelli. Se P.P.P. denuncia la nazione attraverso un corpo a corpo senza requie, Tondelli ne resoconta gli umori neri, con un distacco discendente da disincanto. Insomma: gli Scritti corsari sparano a zero sulle cancrene italiane, i saggi e gli articoli tondelliani di Un weekend postmoderno panoramicano sulla decomposizione del cadavere sociale. Forti di uno humor nero, efficace quanto le invettive pasoliniane.
Leggete cosa scrive a tal proposito Giulio Milani – uno che Tondelli lo ha vissuto da vicino – alle pagine 258-260 del suo fluviale e incomparabile, funzionalmente tergiverso e minuzioso Codice Tondelli (Transeuropa Edizioni, 2025):
Pasolini combatte in modo furioso con una società che vede trasformarsi sotto il peso della modernità capitalistica, Tondelli, invece, sembra quasi divertirsi a mettere in evidenza con caustica leggerezza l’inconsistenza di una società già anestetizzata dal consumismo imperante. Ma attenzione, questa ironia non è evasione o intrattenimento fine a sé stesso: è una strategia raffinata e sottilmente eversiva, un modo di smascherare e minare dall’interno, come abbiamo visto con “Pao Pao” e la leva obbligatoria, il vacuo ottimismo degli anni Ottanta, dominati dalle immagini patinate e dal culto delle apparenze. Se Pasolini rappresenta la disperata rabbia morale degli anni Settanta, Tondelli incarna l’intelligente malinconia ironica degli anni Ottanta. Entrambi sono profondamente impegnati, ciascuno a suo modo, a raccontare e denunciare le derive della propria epoca.
Questo estratto la dice lunga su Codice Tondelli. Un microcosmo pulsante di suggestioni. Biografiche e letterarie. Un saggio narrativo di forma inarrivabile. Un’elegia partecipe e divagante al contempo su Tondelli uomo-scrittore-mito mai paludato. Su Tondelli di attitudine inquieta e stile inesausto. Fiammeggiante: la pagina è pelle, fa parola e desiderio. Pensava. E pensava inoltre che scrivere significa vivere, vivere fino all’ultimo e fino in fondo. Codice Tondelli celebra dunque Tondelli senza celebrarlo. Ne racconta piuttosto il paradigma attraverso la parola e le relazioni – culturali, sentimentali – intrattenute. Nelle redazioni dei giornali frequentate. Nella caserma subita di Pao Pao. Nella Rimini metafora di make-up sociale. Nei locali notturni per anime allo sbando. Nelle case abitate, a volte sofferte, in prima persona. Nei libri scritti-sudati-difesi-vissuti. Pagina per pagina, parola per parola. Velocista sul doppio crinale di marginalità e libertà. In quanto per Tondelli – ancora con le parole di Giulio Milani -:
Tutto era racconto. Tutto era lingua. E la lingua era corpo. Amava i fanzinari, i baristi modaioli, le commesse dark, i soldati spaesati, le drag queen in odore di santità. Li amava perché ci si rivedeva. Tutti loro erano come lui, orfani di un centro. Ma Firenze glielo restituiva ogni notte, in piazza Repubblica. E lui registrava tutto. Per poi perderlo. Con eleganza. Con stile. Perché Tondelli non apparteneva a nessuno. La sua inappartenenza era uno statuto. Una legge non scritta. Una forma suprema di amore.
E a questo punto è chiaro con che libro abbiamo a che fare.
Codice Tondelli si impone come libro frastagliato e centripeto. Convergente sui topoi tondelliani. Basculante tra teoria e prassi (più prassi che teoria) e ottima scrittura. Tra tormento e dolce vita. Tra amore e rivoluzione. Un saggio quasi romanzato che rintraccia – posso scrivere in forma magistrale senza essere tacciato di fabiofazite? – le declinazioni ideali di un autore fra i più eversivi e significativi del Novecento letterario italiano.
Fonte: Lettura di Mario Bonanno uscita su Sololibri.it
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