Recensione a Il bel tempo di Luisa Pianzola

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Ciascuno secondo le sue possibilità
Piera Mattei

Conosco bene la poesia di Luisa Pianzola, che seguo fin dagli inizi del terzo millennio, e questa ultima raccolta, come le precedenti e più, mi piace e mi convince.
Dire mi piace può risultare improprio per una raccolta dove vola, tra una pagina e l’altra, un’aria di morte, sebbene ventilata da amichevoli morti.
La fine è quanto vediamo arrivare solo ad altri, ma è quanto attende ciascuno di noi («Ognuno muore a suo modo»). La morte non è evento eccezionale. Pertanto è giusto parlarne con voce piana: «Adesso vorrei parlare del mio amico Marco/ morto il cinque ottobre 2020 […] Non era amato dalle donne, nel senso che si può pensare/ ma era amatissimo da me». Il ritmo qui potrebbe essere quello della prosa, ma ecco uno scarto, quel participio passato con desinenza di superlativo, perciò in posizione sintattica sghemba, che ci dà in ironica sintesi il senso di un rapporto profondo e semplice.
Sorridere della morte. Un vero capolavoro in questo senso è la poesia che, riferendosi al crollo di una parte del cimitero di Camogli avvenuto nel febbraio del 2021, quando centinaia di bare finirono in mare, parla di un’immaginata ritrovata libertà di quei corpi, che corpi più non sono:
«Sono lì, in un tratto di mare sotto l’Aurelia/ decisi a farsi un bagno all’ora di merenda: ma quali ossa/ quali vecchie sepolture, qui lo spirito è di giovani canottieri».
Tono più dolce ritroviamo, nella sezione “Le cure postume”, nella prima poesia della serie omonima, mentre la seconda sembra quasi compiacersi di immaginare, senza orrore, i corpi, già conosciuti e amati da vivi, nel loro progressivo disfacimento: «… immagino mia madre consumata […] Ma tutti i morti, eroi del non ritorno,/ del non racconto, sono per me divini».
Quindi dei morti, della morte si può parlare in vari toni, con sicurezza serena anche sfiorando il macabro. Ma i toni non sono esauriti, anzi già dalla primissima sezione, “Il bel tempo”, che dà il titolo all’intera raccolta, c’è un’immagine di forza metafisica, immagine non evocabile se non con una completa lettura del testo, a dire la distanza, fisico-metafisica appunto, tra l’autrice e i genitori morti: si muovono come morbidi e lisci cetacei, emettendo sibili, in un lago che si è aperto sotto di lei, a una distanza di chilometri.
Ecco, questo, credo, dobbiamo chiedere alla poesia, quello di darci immagini memorabili, cioè che si imprimano nella memoria, che siano insieme ineffabili, e la contraffazione impossibile.
Queste tematiche – la morte, i cimiteri – sono state presenti anche altrove nella produzione poetica di Luisa Pianzola. Già in una precedente raccolta si poteva leggere una poesia dal perentorio titolo Non date sepoltura alle anime, e di visite al cimitero di Staglieno. Tuttavia i temi sopra esposti mai come qui erano diventati centrali, nella varietà dei registri.
Ma ancora, come nelle precedenti raccolte, c’è spazio per le vicende di personaggi, che la vita di Luisa ha sfiorato, lontani dalla profondità dei rapporti familiari, eppure degni che la loro storia sia raccontata. Nella penultima raccolta, Il punto di vista della cassiera, Luisa aveva accolto la vicenda di Loris Stival, giovane vita travolta dal disamore materno, e di Romain Dehaese, studente francese stabilitosi a Tortona, poi scomparso. Qui, con versi che sono prosa spezzata, fa parlare in prima persona la vittima di un errore giudiziario, che con ironia amara registra come l’accusa ingiusta tuttavia abbia macchiato l’immagine, di lui innocente, anche nella considerazione del suo stesso genitore.
Echi della decomposizione del tessuto sociale procurata dalla pandemia non mancano certo:
«Si parlava ovunque della necessità di riprendersi/ la vita, di far ripartire l’economia. Ma la verità era/ che le persone non desideravano più nulla». Anche qui Luisa ci propone un quadro di totale metafisica indolenza, una prospettiva crudele per il futuro, se, come scrive, quanti si erano distinti nelle attività prettamente umane, nell’arte e nella scienza, appartengono ormai al passato. Lo dice senza apparente allarme, come raccontasse di una visione ricevuta in sogno o in un nebbioso dormiveglia.
Anche dove non sceglie programmaticamente il tono della prosa, la lingua di Luisa Pianzola fa uso del vocabolario di ogni giorno, nell’individuazione, lì, delle giuste parole, dei ritmi giusti. L’antipatia per il linguaggio imbonitore che pretende, usando il medio di una pseudo-lingua, di annunciare «il da farsi» è ad alta voce dichiarata (“L’utilità della lingua inglese”). Resta invisibile l’accurato lavoro di lima («Limare è sempre stato il dogma»), l’attento ascolto dei versi. Esposto alla luce invece è il divertimento che le procura utilizzare, per sue osservazioni e misteriose metafore, le parole e gli oggetti considerati i meno nobili (Le signore patate figliano).
Tornando quindi alla mia prima semplice ma decisa dichiarazione, questo libro mi piace, mi lascia un senso di soddisfazione, anche se e quando fa del dolore, individuale e universale, il suo tema prescelto. Vera negatività sarebbe solo l’ammutolita protesta. Fare poesia può diventare quindi atteggiamento simile a quello di donare fisicamente parte di sé, del proprio sangue, è gesto che, implicitamente e nonostante tutto, dichiara ottimismo, desiderio e disponibilità a essere ascoltati: «Ci si riscopre attratti dal bene comune, dal sangue/ donato ciascuno secondo le sue possibilità». (Visita alla cattedrale).

Piera Mattei, perìgeion, giugno 2024

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