Madeleine dorme

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Descrizione

Questa recensione di Giorgio Vasta al libro di Shun-Lien Bynum Sarah, «Madeleine dorme», primo titolo di narrativa straniera pubblicato dalla casa editrice Transeuropa, è uscita per «Repubblica».

di Giorgio Vasta

Madeleine dorme – primo titolo di narrativa straniera pubblicato da Transeuropa (nella bella traduzione di Elvira Grassi e Leonardo G. Luccone) – è un teatrino di stoffa. Uno di quelli per bambini – il panno colorato che si srotola per tutta la sua lunghezza, il sipario rosso fermato da due cordicelle – vale a dire uno di quei giocattoli con i quali gli adulti, se cominciano a giocare, non trovano il modo di smettere.
All’interno di questo teatrino, nella bocca della sua scena, ci sono “la donna-tigre che fa su e giù per la cella e banchetta con fegato crudo; il ragazzo-dromedario, che crede d’esser capace di prosciugare un pozzo tanta è la sete che ha; la donna-tricheco, che versa copiose lacrime anche per un nonnulla e ha i canini superiori lunghi e robusti come zanne […] Una ragazza che pare non riesca a smettere di dormire, che emette gorgoglii e si agita nel sonno ma non si sveglia mai.”
La Madeleine del titolo è la ragazza che non smette di dormire. Ma Madeleine è anche la donna-tigre, il ragazzo-dromedario e la donna-tricheco. Madeleine è ogni luogo, ogni personaggio, ogni situazione. Madeleine è tutto ciò che sogna, ed è tutto ciò che potrebbe sognare, tutto ciò che ancora sognerà. Perché il sogno di Madeleine è la letteratura, la mitopoiesi, la fabbricazione delle immagini.
Una fabbricazione che nel romanzo d’esordio di Sarah Shun-lien Bynum – finalista al National Book Award e inserita nel 2010 dal New Yorker nella classifica dei venti migliori scrittori americani under 40 – non si pone in un ruolo ancillare rispetto al plot; al contrario la proliferazione di visioni sovrasta le logiche della trama e le mette in crisi dichiarandone l’illusorietà.
Come accade in Sterne, in Lewis Carrol, nel Manoscritto trovato a Saragozza di Potocki o in Le mille e una notte il romanzo di Bynum è infatti una narrazione che rivela una nostalgia struggente per una possibilità d’esistenza della letteratura non subalterna al predominio dell’intreccio, il desiderio di un tempo in cui la capacità di saturazione interna di ogni singola immagine era una qualità in grado di competere con l’instaurazione di nessi tra le immagini medesime.
Tutto ciò produce alcune conseguenze.
Siamo sì alla fine dell’Ottocento da qualche parte nella campagna francese, ci rendiamo conto che Madeleine ha una madre che prepara marmellate e miriadi di fratelli e sorelle che con “gesti di silenzio” custodiscono il sonno della sorellamaggiore addormentata, ma tutto ciò che sappiamo e che dovrebbe comporre il telaio della storia narrata esiste nella forma del presentimento, in uno sfumare continuo dei confini, in un liberatorio scompaginamento delle convenzioni.
A essere serenamente evanescente è soprattutto il limite che dovrebbe distinguere la realtà, qualsiasi cosa sia, dal sogno. La proposta che Madeleine dorme fa al lettore è quella di accettare di venire desituato, spazialmente e temporalmente, oltrepassando centinaia di soglie e smarrendosi nell’invenzione del racconto (di fatto un’esperienza di felicità).
E dunque, procedendo per frammenti raramente più lunghi di una pagina (una misura funzionale alla saturazione delle visioni), ci si inoltra nei sogni di Madeleine, vale a dire in un sistema di vasi comunicanti popolato da Matilde (una donna che “quando va al mercato deve tirarsi su il grasso proprio come le altre donne si raccolgono le gonne”) alla quale all’improvviso spuntano le ali, da Charlotte che desidera trasformarsi in una viola da gamba, dallo scemo del villaggio, Monsieur Jouy, oggetto delle esplorazioni sessuali di Madeleine, dal fotografo Adrien al quale viene domandato di fotografare una serie di ammalati per intercettare sui loro lineamenti i sintomi patologici che il cervello dall’interno del cranio proietta sul volto, e infine da Monsieur Pujol, vale a dire “le petomane”, la cui anima risiede nell’osso sacro, l’uomo mitissimo in grado di generare i suoni più malinconici: “quello dell’usignolo, della cavalletta, del cuculo.”
Un manipolo di freaks, insomma, una Corte dei Miracoli che dà vita a una narrazione in cui incanto e disincanto si compenetrano per comporre una favola acre dove adolescenza sesso dolore e scoperta vengono a coincidere.
Le narrazioni, pensiamo leggendo il romanzo di Bynum, sono una forma di vita subacquea, un germogliare di immagini notturne naturalmente deformi. Le narrazioni sono indispensabili e sono biodegradabili, si materializzano e spariscono (una sintesi perfetta di tutto ciò sta nella scena in cui i fratelli e le sorelle di Madeleine addormentata le accostano alle labbra uno specchietto; il respiro forma sul vetro il disegno di piccoli animali che dopo qualche secondo si dileguano).
Madeleine dorme, dicevamo all’inizio, è un teatrino di stoffa, un romanzo-giocattolo che smontato nella pagina si ricompone nella testa di chi legge. E viceversa: perché se è vero che leggere è legare è altrettanto vero, ammettendone la possibilità, che leggere può essere anche uno slegare.

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