Recensione a “Mi farò punteggiatura” di Nadia Dalle Vedove

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Si intitola “Mi farò punteggiatura” (Transeuropa Editore, pag. 54, euro 15) l’ultimo libro di Nadia Dalle Vedove, nata a Como ma ormai recidente da molti anni a Trieste. La silloge poetica verrà presentata giovedì alla Libreria Minerva alle 18. Dalle Vedove ha già diversi titoli all’attivo ma in questo caso si tratta di una vera e propria antologica. Il volume raccoglie infatti poesie dal 1992 al 2023. Il titolo tratteggia una metafora chiara, perché un farsi punteggiatura significa anche seguire il ritmo delle parole, i sospiri, le pause e i motori di ciò che va a ideare la scrittura creativa. Ma potrebbe anche nascondere altri simboli, per esempio il fatto di restituire allo scritto una sorta di “punteggiatura identitaria”.
Non pochi i versi in cn l’autrice si rivolge a un fantomatico tu che probabilmente traduce anche i consueto “tu montaliano” (ovvero il riflesso dello stesso autore), ma i temi sviluppati ci portano in molteplici percorsi di interfaccia. Per la stessa ammissione della scrittrice, le poesie raccolte sono il frutto di opere per lo più tardo-adolescenziali, e infatti i componimenti non nascondono una chiara matrice vocata a stati d’animo “assoluti”. Il confronto è quello con se stessi e con gli altri, talvolta sfruttando anche metafore e analogie animali (gli insetti, gli uccelli…) dove l’umano si distingue proprio per la mancanza d’istinto o per la sua progressiva perdita. Altre volte è il paesaggio o i fenomeni naturali (soprattutto la pioggia) a prendere il sopravvento e ad amalgamarsi con il corpo nei suoi aspetti più sensuali: “scavo le tue mani/perché possano/ allora/riempirsi/ del mio piovere su di te” scrive Dalle Vedove. L’amore ha sempre un tratto adolescenziale, appunto, tende all’assoluto. Ma è difficile individuare l’oggetto d’amore. Potrebbe essere un compagno, un figlio o la parola stessa. Siamo sempre tuttavia nella sopravvalutazione passionale perché “Se la luce infila l’infinito” è anche vero che “i corpi bruciano”. Più spesso il corpo è anche quello della parola, per cui sopraggiunge il “piegarsi” e come una “strofa” o “il dire di te tra assenti rime”. O il fatto che lo “sguardo” è per eccellenza quello di chi il mondo lo inventa, dell’artista insomma, mentre spesso viviamo in mezzo a un’inconsapevolezza collettiva in cui difficilmente l’uomo “si accorge dell’uomo”. C’è solitudine ma c’è anche leggerezza, come un scivolare sopra la memoria e il passato. Un’inquietudine che si protrae per tutto il testo, aperto al sentire e alla vita, ma anche non dimentico di un nichilismo inevitabile, lì dove c’è una sola certezza: “il solitario accadere”. Sopra ogni cosa trionfa il desiderio, vocato alla sua unica possibilità, ovvero muoversi tra presenza e assenza in un circuito dinamico che insegue ombre.

Articolo uscito il 28 novembre su “Il Piccolo” di Trieste e firmato dalla giornalista, scrittrice e poetessa Mary Barbara Tolusso.

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