Recensione a Sinfonia di un bosco in rivolta di Paola Massoni

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Che poi qualcuno potrebbe dire che il titolo, Sinfonia di un bosco in rivolta, è normale visto che a scrivere il testo è stata un’artista che, nella sua sofisticata complessità, è anche musicista, soprano, musicologa. Sì, questo è certo, ma c’è anche un altro motivo: la scelta denominativa allude a un ritmo della vita, proprio di chi la prende sul serio, la vita, e vuole onorarne la luce e la bellezza, un ritmo che poi è anche quello della Storia che io non vedo marciare marziale, con robotica militare, col passo dell’oca come una marionetta mossa da mani artritiche. La Storia, per me, incede, avanza, e ristà, ma sempre con flusso morbido, elegante anche in mezzo alle macerie e alle fughe perché rivoluzioni e scontri non sono “pranzi di gala”, come qualcuno ha detto. Insomma, questo libro ha una geometria dinamica, dipinge, scenografa; è un ballo che ha tutti i caratteri della danza che vuole occupare la centralità dello spazio.

È evidente che se si parte da qui, da un arabesco, da un volteggio disegnato nella architettura poliedrica di una sfida esistenziale, si vede subito che il romanzo di Massoni è anche un omaggio alla libertà mai celebrata ma sempre vissuta con spontaneità. Ho detto romanzo, ma mi sono tenuto sul generico. In effetti, è un romanzo allegorico, che ha preso in prestito i caratteri di una fiaba/favola, alla maniera di Orwell. E a rendere più intrigante la struttura c’è il bosco nell’accezione simbolica con caratteri che rimandano alla foresta della tradizione letteraria medievale. Un luogo, dunque, dove l’esistere ha ancora quei caratteri primitivi che rimandano agli albori della vita quando in ogni cosa animata e inanimata si avvertiva ancora la perfezione creativa, l’orma di Dio. Il bosco, dove tutto si svolge, che è il teatro delle azioni, dei sentimenti, dell’equilibrio, è una dimensione edenica che si vive una minaccia, un progetto eversivo e violento da parte di un nemico che agisce dall’esterno e che si presenta con l’arroganza di chi si sente il dio imperturbabile e indifferente, padrone e signore di tutte le forme del creato. Gli esseri, che lì vivono in sintonia, sentono come un alto dovere stare dalla parte dell’esistenza e respingere, sconfiggere la brutale volontà di chi vuole distruggere le regole su cui si basa e si fonda la dimensione della natura. Il nemico agisce, ottuso come sempre, in nome della boria dello sviluppo e della modernità che, come sappiamo, sono il contrario del progresso, convinto com’è che del concetto di tempo siano rimasti solo gli attimi velocissimi di quel divenire che gli esseri   più accorti chiamano presente perché questi, essendo accorti, hanno anche il senso del passato e del futuro. Gli uomini dell’eterno presente, invece, sacrificano piante secolari, attentano al ciclo della vita, devastano, liberano la terra dalle radici degli alberi perché il profitto è l’unico valore che conoscono, pensando che, oltre loro, il mondo non avrebbe significato. Ed è contro questo totalitarismo “materialistico”, contro questa bestemmia contro il Creato che il popolo del bosco lancerà la sua sfida e vincerà in nome della meravigliosa irregolarità, diversità, poliedricità della Vita. L’ idea morale che sta dietro il testo e il suo lieto fine è, in fin dei conti, questa: Nulla Aesthetica sine Ethica, che poi è anche la convinzione di un grande artista che ho avuto la fortuna di avere come amico: Carlo Bimbi.

Aricolo di Daniele Luti su Alleo

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